#2: È facile accettarti per come sei, se sai come farlo
introversi di tutti i reami, uniamoci e conquistiamo il mondo silenziosamente
Ehi ciao,
quanto tempo! Io sono Laura e questa è Càpita, la newsletter che prova a spiegare in modo semplice cose abbastanza complesse della vita adulta.
Non sembra anche a te che sia successa già una quantità notevole di eventi dall’inizio del 2021, considerando che è cominciato solo da 23 giorni? Un attacco al Campidoglio, una crisi di governo, la relazione tra Harry Styles e Olivia Wilde, un’elezione del nuovo leader della più grande democrazia Occidentale. Almeno abbiamo la nuova wave su Bernie Sanders. E dopo questa, vai con la sigla!
C’è stato un momento preciso, da qualche parte nel bel mezzo della mia infanzia, in cui ho avuto la certezza di essere una bambina prodigio. Era una questione che prendevo molto seriamente, con una mancanza di leggerezza che mi ha caratterizzato poche volte nei momenti della mia vita in cui abbia dovuto analizzare con attenzione quelle che erano le mie potenzialità. La vivevo con una certa noncuranza, senza farlo pesare ai miei coetanei: lì, persi con i loro Beyblade durante la ricreazione, non potevano certo sapere ciò di cui fossi capace, e in fondo andava anche bene così. Me ne vantavo con finta indifferenza, lasciando cadere nelle conversazioni qualche dettaglio casuale; lo stesso trattamento che anni dopo ho riservato, ad esempio, al mio voto di maturità, tanto alto quanto inaspettato, con un velo di finta modestia che non riusciva a nascondere l’orgoglio e la volontà di sbattere quel risultato sotto tutti i portici del centro.
Io però all’epoca ero una bambina prodigio, e il mio talento si esprimeva in un’abilità molto specifica: leggevo e ascoltavo la musica, contemporaneamente. Nei pomeriggi dopo la scuola, dopo i compiti, dopo l’ora e mezza di ginnastica artistica, collegavo il jack dell’impianto di musica in filodiffusione che mio padre aveva installato in camera mia al walkman azzurro della Sony, sceglievo un cd e premevo play; poi prendevo il libro dal comodino, mi stendevo a pancia in giù sul letto e iniziavo a leggere. Sapevo bene come funzionava: all’inizio le mia concentrazione era spaccata a metà tra le parole che stavo leggendo e quelle che stavo ascoltando, seguivo il ritmo con la testa, con il piede, mormoravo le parole, mentre seguivo con gli occhi le frasi. A un certo punto però, in un modo che non riuscivo a spiegarmi, smettevo di sentire la musica: era una cosa che c’era, ne avvertivo la presenza, ma la mia attenzione era talmente focalizzata sull’intreccio che stavo leggendo che era come se esistesse solo quello. Era come mettere la testa sott’acqua ma restare con il corpo fuori, sentendo il calore e il vento sulla pelle, con il risultato che mi immergevo nel silenzio senza però perdere il contatto con ciò che mi circondava.
Mi sono considerata una bambina prodigio per parecchio tempo, lo ammetto. Leggere era uno dei miei passatempi preferiti, poco importava dove fossi: a otto anni per esempio avevo a disposizione il mio banco e le lezioni della maestra Giovanna, a me che della matematica già all’epoca non fregava un cazzo, presagio cristallino che avrebbe ricevuto conferme molti anni dopo, quando era troppo tardi. Aprivo “Harry Potter e il calice di fuoco” e leggevo.
Non ho mai pensato che ci fosse qualcosa di strano in questo, né a quei tempi né negli anni a seguire: leggere era una questione personale, una solitudine che cercavo e che non mi pesava. Preferire un libro ai miei compagni non faceva di me una persona apatica, asociale, priva di interessi o con poca voglia di stare con i miei coetanei. Mi piaceva andare alle feste di compleanno e anche a quelle di Carnevale, in maschera, mi piaceva andare al cinema il sabato pomeriggio con le mie amichette. Eppure erano i momenti in cui tiravo fuori il mio essere bambina prodigio, da sola nella mia camera, a darmi l’energia per poter affrontare ciò che c’era là fuori.
Parecchi anni dopo quel libro aperto sotto il banco incastrato tra il legno del tavolo e il lembo di compensato sbeccato del comparto sottostante, mi sono ritrovata nel bel mezzo del primo brainstorming della mia vita. Se lavori in ambito creativo, i brainstorming sono qualcosa che accade di frequente: ci si mette attorno a un tavolo e si comincia a lasciar fluire idee indipendentemente dalle competenze e dalla gerarchia di ruoli che hanno le persone coinvolte, cose che rimangono fuori dalla porta per quella finestra di tempo in cui poter dire qualsiasi cosa. È come rovesciare sul tavolo dei mattoncini Lego e ricomporli in modo intelligente: quel pomeriggio chi era lì con me li prendeva e metteva insieme, azzardando idee, strutturando ragionamenti con estrema naturalezza. E io guardavo, senza avere il coraggio di aprire bocca, preferendo forse camminarci sopra a piedi scalzi su quei mattoncini, piuttosto di dire una banalità davanti a tutti. Facevo fatica a concentrarmi su qualcos’altro che non fosse il sentirmi fuori posto, paragonando la mia gracile esperienza a quella degli altri, dimenticando anche che ero chi quel cliente lo conosceva meglio di tutti, e quindi con più informazioni alla mano utili per rispondere al motivo di quella riunione.
Non credo di aver parlato granché, in quell’ora e mezza; quando sono tornata alla mia scrivania ero convinta che ci fosse qualcosa che non andava in me, e più lo pensavo più mi arrabbiavo per il fatto di pensarlo.
Quell’episodio è stato uno tra i tanti in cui avrei dovuto mostrare per me stessa la medesima comprensione che spesso riservo a chi mi circonda, alle volte quasi al limite della giustificazione. Per fortuna qualche tempo dopo ho avuto modo di capire come questa e molte altre circostanze fossero legate tra loro, quando mi sono imbattuta in un Ted, che su di me ha avuto l’effetto delle giuste lenti graduate che l’ottico inserisce nella montatura durante l’esame refrattivo, e che ti permette finalmente di distinguere le lettere della riga più in basso sulla lavagna luminosa.
La protagonista di questo video di 18 minuti è Susan Cain: lavorava come avvocato a Wall Street e qualche anno fa, a un certo punto, ha deciso di smettere di ignorare la sua timidezza e i sensi di colpa che provenivano dall’ambiente che la circondava, che le imponeva una socialità che non faceva molto parte di lei. Ha scritto un libro che si chiama “Quiet”, coinvolgendo psicologi, studenti di Harvard, neurobiologi, scienziati, intervistati durante sette anni di ricerche: racconta l’enorme potenziale che hanno le persone introverse, in una società che premia la capacità di mostrarsi in primo piano, che valorizza chi è in grado di far sentire la propria voce tra le tante alzandola di qualche tono.
Secondo una teoria scientifica, spiegata meravigliosamente in un video di BBC Ideas, nel cervello umano ci sono due importanti sostanze chimiche, che agiscono da neurotrasmettitori: la dopamina e l’acetilcolina. La dopamina è una specie di fuoco d’artificio, che esplode in sprazzi colorati spingendoci alla ricerca di gratificazioni esterne: quando succede ci viene più facile assumere dei rischi o conoscere persone nuove, ed è quindi legata soprattutto alle occasioni sociali. Il cervello delle persone estroverse è più ricettivo alla gratificazione esterna, perciò in queste situazioni il boost di sensazioni positive che si genera in loro li fa sentire ricaricati, elettrizzati, adottando di conseguenza comportamenti che possono attirare l’attenzione su di loro all’interno di una dinamica sociale, e che li fa sentire a loro agio.
Anche il cervello delle persone introverse produce la dopamina, che ha però un effetto ultrastimolante, lasciandole stanche e affaticate - a differenza degli estroversi che escono dall’interazione sociale galvanizzati. La molecola che invece ha un effetto benefico sugli introversi è l’acetilcolina: viene rilasciata dal cervello nei momenti di calma, solitudine, oppure durante attività che stimolano l’introspezione come leggere o riflettere, o che favoriscono la concentrazione come guardare anche solo una serie tv o un film. L’acetilcolina agisce sul sistema parasimpatico facendo risparmiare energia, e infondendo una sensazione di calma e placida rilassatezza.
Per quanto assecondi da sempre la tendenza a dividere il mondo in buoni e cattivi, in giusto o sbagliato, in bianco o nero, ho capito che non posso ridurre il discorso all’esistenza di persone solo introverse e solo estroverse. Anche in questo caso c’è una gradualità - oltre a una spiegazione chimica, si intende: tra i poli opposti in cui si trovano l’introverso e l’estroverso ci sono delle scale di grigi in cui si manifesta la personalità di ciascuno, in modo diverso. Siamo tutti una combinazione dell’uno e dell’altro, ma c’è chi si riconosce chiaramente più nell’uno che nell’altro, come è capitato a me. In questo modo ho iniziato a comprendere che la ritrosia a parlare di un progetto su cui avevo messo anima e cuore davanti a cinquanta e più dei miei colleghi era comprensibile, che la stanchezza fisica che provavo a fine giornata quando ancora andavamo tutti i giorni a lavoro, nel nostro grande open space, e che mi costringeva a tenere le cuffie l’80% del tempo per isolarmi dagli stimoli esterni era normale, che il picco di produttività delle mie giornate nei primi tempi di smart working in lockdown aveva senso. O che non è il volume della mia voce o il tempo trascorso senza parlare durante un brainstorming, una riunione, un incontro, un qualsiasi contesto sociale che coinvolga delle persone che hanno delle aspettative su di me a determinare la mia autorevolezza ai loro occhi.
Quando quattro anni fa ho deciso di trasferirmi a Padova, ho scelto di condividere casa con altre persone: tra le tante spiegazioni quella che all’epoca ha prevalso sulle altre è stata la consapevolezza che non sapevo se fossi pronta a trascorrere una buona percentuale del mio tempo da sola. Alcune settimane dopo che mi ero trasferita i miei coinquilini, entrambi studenti, sono tornati a casa per l’estate. Ed è stata in quell’occasione, mentre cucinavo con addosso solo una t-shirt over, a gambe nude e piedi scalzi, che ho realizzato di aver pensato alla solitudine come a uno spazio da riempire, in questo caso di persone, e ora che non c’erano la solitudine era lì, che mi avvolgeva come un bozzolo confortevole: e non era mai stato così semplice, così naturale.
Sarà che c’era la musica. Sarà che in fondo l’ho sempre saputo, che ero un bambina prodigio.
Cose che mi sono capitate tra le mani
La mia ossessione degli ultimi giorni: sì, i meme su Bernie Sanders con cui sono state tappezzate le pareti dell’internet. A tal proposito, ecco uno dei migliori thread Twitter sul tema;
il piccolo Pizzatoru che prova a prendere un mandarino;
un progetto editoriale su Instagram, che ha anche un sito, realizzato da due tra le persone più brillanti che io conosca: racconta il calcio con gli occhi di chi lo guarda, lo commenta e lo ama, anche se il calcio rimane solo una parte, uno sfondo a piccoli spaccati di vita che parlano in qualche modo a ognuno di noi;
la storia di Amanda Gorman, la meravigliosa poeta afroamericana di 22 anni che ha partecipato alla cerimonia di insediamento di Joe Biden, e quella del cappotto e dei gioielli che indossava;
un’altra canzone che ho consumato talmente tanto che è finita direttamente nella mia playlist Domenica mattina col sole;
il profilo di Pia Riverola, una fotografa spagnola che vive tra LA e Città del Messico, che fa delle foto pazzesche a questi fiori;
il mio generatore di lenny faces prediletto - chi mi conosce bene sa che la mia preferita è questa: ᕕ( ᐛ )ᕗ.
Tadaaan, anche questa seconda puntata è finita. Se vuoi condividerla con qualcuno puoi farlo premendo qui sotto:
Ti è piaciuta? Sei anche tu una persona introversa e finalmente riesci a spiegarti perché non sopporti la gente, e vuoi comunicarmelo? Pensi che i meme su Kermit siano la parte migliore di queste newsletter? Hai risposto sì a quest’ultima domanda ma credi che anche quelli su Sanders non scherzino? Puoi dirmelo nel solito modo, rispondendo a questa mail oppure recuperando una spolveratina di miei contatti qui.
Ci risentiamo tra due settimane! ᕕ( ᐛ )ᕗ
Baci stellari,
Laura