#3: Quando mi faceva schifo il mio corpo, e non era solo l'adolescenza
chili di troppo, bellezze irreali, diet culture, pizza con le patatine
Ehi ciao,
benvenuto nella mia cucina. Io sono Laura e questa è Càpita, la newsletter che tenta di spiegare in modo dignitoso i casini dell’età adulta, in versione long-form.
Questa settimana è successa una cosa incredibile: sono andata per la prima volta in televisione! È successo mercoledì al Tg1 delle 20.00, nel momento in cui hanno annunciato i casi positivi di Covid quella giornata: ebbene, tra quei 13.189 c’ero anche io - solo clown reaction. Va bene, ora che sai che sono famosa possiamo andare oltre.
Non ho mai osservato il mio corpo così tanto, così da vicino come in questi mesi. Le mani che ho sempre molto secche adesso lo sono in modo diverso, logorate dagli strati di gel igienizzante con cui le impasto spesso; i brufoletti sulle guance, che ci sono quelli da premestruo e quelli da mascherina, dei quali ho imparato a riconoscere la differenza e il modo in cui reagisce la mia pelle; o la zona sopra le ginocchia, che si è assottigliata in modo quasi impercettibile per un occhio abituato a vedere tutti i giorni certe forme, certe dimensioni, ci son voluti i jeans e le gonne corte dell’estate scorsa a farmene accorgere. Oppure i capelli cresciuti tantissimo tra un lockdown e l’altro, a un certo punto sono diventati talmente lunghi che quando li sentivo sfiorarmi il tricipite, ma che è, un ragno, un insetto, vai via cazzo, che schifo, ah no, sono le estremità dei miei riccioli lì, sopra il mio gomito.
Non ho mai avuto un gran rapporto con il mio corpo. Quando ero piccola, la mattina prima di andare a scuola, mi sedevo sulla tazza del water e contavo i miei rotolini di grasso sui fianchi: uno, due, tre, quattro, ci affondavo le dita per sentirne la morbidezza, per capirne la profondità, ci infilavo le mani per scaldarle - questa cosa funzionava bene d’inverno, era soddisfacente, con la pelle calda da letto. Quelle mattine avevano il profumo dei Pan di stelle che mangiavo io e del caffelatte che beveva la mamma, insieme alle fette biscottate contate che tirava fuori da una scatola di metallo cilindrica che una volta doveva contenere dei biscotti al burro, la stessa scatola di metallo che è alla base di una delle più grandi menzogne della mia generazione. Almeno nella mia c’era davvero del cibo.
In quel periodo dell’infanzia in cui i perché sono rivolti a ciò che ti circonda, il mio aspetto fisico era esattamente ciò che ero io: gli corrispondevo, era la sagoma che conteneva la mia persona, uno spazio con una forma specifica che connotava la mia identità esattamente come lo facevano i miei capelli castani, gli occhi marroni o il neo alla base sinistra del mio naso. Una cosa con cui ero nata, e di cui non avevo interesse a cercare l’etichetta per fare il reso al mittente.
Ci sono due tipi di persone al mondo, più o meno per qualsiasi abitudine di comportamento esistente e conosciuta all’uomo. C’è chi mangia la pizza con le mani e chi la taglia con le posate, chi gira la carta igienica con il velo verso il muro o chi lo lascia verso fuori, chi con una sola sveglia si alza e chi ne imposta sedici prima di riuscire a mettere i piedi fuori dal letto, chi ha il desktop che è un casino e chi dispone le icone in ordine maniacale. Poi ci sono quelli per cui l'adolescenza è stato the time of their lives, e quelli per cui è stato più complicato. Io e i miei chili di troppo facciamo parte della seconda categoria, perché se hai quindici anni e sei sovrappeso, allora non è raro vederti rimbalzato all’ingresso della scala sociale che determina i rapporti tra gli adolescenti. Solo che io, con le mie scarpe da hip hop, i jeans larghi e le felpe monocolore della Scout, all’epoca non lo sapevo.
Anche se ne avevo avuto sentore già prima prima, le superiori sono state il primo luogo in cui mi sono resa conto che l’aspetto fisico era il biglietto da visita per la mia persona, più immediato, più facile applicarmi un’etichetta e una collocazione nel grande gioco della vita senza spendere del tempo per assicurarsi che corrispondesse al vero. Io non mi sono nemmeno chiesta se fosse giusto o meno: funzionava così e basta, e siccome io con quell’involucro ci ero nata, se non mi stava bene la cosa migliore che potessi fare era provare a migliorare quel dato di fatto.
Della mia prima dieta ricordo la terrina di insalata accanto al piatto che conteneva del petto di pollo, e ricordo che avevo fame, tantissima fame. Due fette biscottate e qualche dito di latte a colazione, pasta in bianco a pranzo e tanta, tantissima insalata a ogni pasto, io che l’insalata non l’avevo mai mangiata ed eccomi lì, a doverne fare quasi indigestione due volte al giorno. È durata pochissimo: ero in terza superiore, e quello era un regime alimentare imposto troppo distante dal mio, nonostante sapessi che quello abituale sicuramente non era dei migliori, povero di frutta e verdura. Cambiare le mie consuetudini era una fatica troppo grande in quel momento, perciò ho continuato a portarmi dietro i miei chili di troppo con rassegnazione: ho messo in uno scatolone la consapevolezza che non sarei mai diventata magra, bella, appetibile, desiderabile, considerata, sapendo che sotto sotto era colpa mia. Ero nata con così, con quell’aspetto, e quello mi sarei dovuta tenere.
Flashforward, aprile 2020, io e mia sorella siamo l’esempio vivente dei due modi opposti di vivere la clausura. Lei si è data ai dolci e alla panificazione, ha adottato un lievito madre e lo rinfresca mattina e sera, l’ha chiamato Vito. Io invece ho deciso di spaccarmi di palestra: ho ricominciato la Bikini Body Guide di Kayla Itsines, quel programma di una personal trainer americana che avevo fatto qualche anno fa, mezz’ora ad alta intensità tre volte alla settimana. L’immobilismo delle giornate in smart working, seduti, nella stessa posizione per ore e senza possibilità di muoversi in libertà, mi fanno pensare a come il mio corpo uscirà da queste settimane di lockdown; e credo lo pensi anche parecchia altra gente, perché raramente come in questo periodo ho visto le pareti dei social tappezzate di così tanti meme su un ritorno alla vita di prima appesantiti di chili e chili di stasi. È un pensiero molto presente, questo: da sempre devo fare attenzione a cosa mangio e quanto ne mangio, andavo in palestra anche per questo, per sfogarmi, per muovermi, certo, ma soprattutto perché avere un appuntamento fisso per bruciare calorie durante la settimana così da permettermi di assumerne altre con meno sensi di colpa, pensando di andare a impattare meno sul mio fisico, sui miei fianchi, sulle mie cosce. Il lockdown mi aveva tolto la palestra ma avevo ancora la mia BBG e la possibilità di poter bruciare, smaltire, e magari uscire da quelle settimane fiera delle mie foto “prima e dopo”, com’ero prima di iniziare ad allenarmi, come sarei stata magra, tonica, sorridente poi.
Edoardo Mocini di lavoro fa il medico, ed è specializzato in Scienza dell'Alimentazione. È amico di Pierluca, conosciuto su Instagram come @piuttosto_che, uno degli esseri viventi più divertenti che io abbia mai visto nel mio feed, che me l’ha fatto conoscere riprendendo alcuni post del suo profilo. Edoardo cura i disturbi dell’alimentazione e fa divulgazione: non è da lui che ho sentito parlare di diet culture, ma è grazie a lui che ho iniziato ad accorgermi che ci sono due modi di raccontare, formulare, pensare, impostare il nostro rapporto con il cibo.
La diet culture è, letteralmente, la “cultura della dieta”: un apparato di credenze e convinzioni che associa alla magrezza valori morali e comportamenti virtuosi legati al proprio benessere. In altre parole, un corpo magro è il lasciapassare verso la convinzione condivisa di avere valore come persona ed essere degno di venire considerato dalla società in modo positivo, è segnale di saper condurre una vita sana, dove l’impegno per mantenersi in forma - cosa che spesso coincide con l’impegnarsi a perdere peso - corrisponde automaticamente a una manifestazione concreta di un percorso verso la felicità, correlato da fiducia in sé stessi e salute mentale.
La diet culture trova terreno fertile perché è legata al modo in cui viene rappresentato il corpo su ogni media a noi accessibile, soprattutto i social, che amplificano un mondo di zucchero filato e minipony, dove brand e influencer settano quotidianamente uno standard irreale, distorto e irraggiungibile di cosa sia un corpo. In più, la nostra società ci ha abituati da tempo all’idea che il nostro corpo inteso come aspetto fisico sia qualcosa su cui investire, un potenziale capitale: ne nasce un meccanismo che si alimenta facendo leva sulle debolezze e le insicurezze delle persone, in cui la ricerca spasmodica della magrezza diventa il segreto per la felicità, con la differenza che la strada per arrivarci è tortuosa, fatta di privazioni, no carboidrati, no pizza, sì un po’ di pane ma solo perché oggi ho fatto cinquanta minuti di cardio, che all’estremo sfocia in disturbi del comportamento alimentare. Il percorso di self-acceptance diventa impossibile, perché lo standard di partenza è del tutto scollato dalla realtà, e mi ritrovo a cliccare sull’articolo di Elle che celebra il “fisico top” di Lourdes Ciccone, sentendomi in colpa perché io non sono così, ma forse se mangio poco, a malapena quanto basta per stare in piedi ci riesco a diventare come lei, sempre che non ingrassi.
Quella dieta che ho fatto alle superiori è stata la prima, ma non è stata l’unica: anni dopo ci ho riprovato, e sono riuscita a perdere più o meno quindici chili, con pazienza e in modo controllato, seguendo un regime alimentare che non stravolgeva quello che avevo già, ma che ne integrava alcune parti, facendomi diventare una persona che piacesse prima di tutto a me. Ho capito qual è il mio peso forma, come devo mangiare se non voglio sentirmi appesantita, cosa è meglio ridurre, come bilanciare in modo sano proteine, carboidrati, legumi, frutta, verdura, sapendo che mangiare un dolce se ne ho voglia non è uno sgarro, qualcosa che se mi concedo devo poi compensare con dell’attività fisica per cancellarlo.
Questo autunno sono andata di nuovo da una nutrizionista, e la prima cosa che lei mi ha chiesto è perché fossi tornata. Una delle cose che ci differenziano dal mondo animale credo sia, oltre alla coscienza e a una serie di altre cose ovvie, l’impulso a migliorarci, o almeno il tentativo di farlo: mi piace pensare che spingermi a essere una versione migliore di me sia qualcosa di simile ad avvicinare il più possibile l’idea che ho di me alla sua manifestazione reale, dove la prima è l’immagine che ho di come sono nella mia testa, e la seconda è l’espressione della sua esteriorità e interiorità, ovvero il mio aspetto fisico e la mia personalità. In sostanza, fare più o meno quello che mi chiedeva di fare la maestra Sandra alle elementari, quando dovevo ricalcare la Germania dal libro di geografia al foglio lucido che poi avrei colorato, e per farlo mi mettevo controluce alla finestra per disegnare i confini.
Io su quel controluce ci sto lavorando, poi non so se riuscirò a perdere quei chili, ma non mi metto pressione, lo faccio per me e per assomigliare all’immagine di me che ho nella mia testa. Perché di certezze ne ho poche, una è la pizza al sabato sera, un’altra è che l’adolescenza fa veramente schifo; ma fortuna che il tempo è passato e ora di anni ne ho quasi trenta.
Cose che mi sono capitate tra le mani
Un tizio vietnamita che ama alla follia le sue piante, alle quali canta in modo tutto tranne che intonato il suo amore attraverso i migliori successi pop e non degli ultimi anni, in formato reel: un esempio qui, e pure qui;
questa chiacchierata su Venti tra Irene Graziosi ed Elisa Cuter riguardo il libro di quest’ultima, Ripartire dal desiderio, che parla in modo estremamente lucido di femminismo, identità, moralismo, e della capacità di costruire la nostra vita e la nostra persona seguendo ciò che desideriamo;
un piccolo camaleonte che beve, e tantissimi altri animali di taglia smol;
Will We Ever Evolve Out Of Social Media? di Sadhbh O’Sullivan, un pezzo mega interessante su Refinery29 sul nostro complicatissimo rapporto con i social media, raccontato analizzando la costellazione di fenomeni che gli girano attorno come digital detox, personal branding, burnout, FOMO, casual posting, mind gardening, e tantissime altre parole affascinanti;
la conferma al mio amore imperituro per Venerus;
il meraviglioso progetto Belle di faccia, di @chiaralascura e @frauleinstalker, uno dei profili che in Italia spiega meglio grassofobia, fat acceptance, body positivity e thin privilege;
sam youkilis, fotografo pazzesco, e i video ipnotici sul suo profilo: vedere per credere.
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Alla prossima!
Laura