#14: L’altra metà della mela è ancora in frigo
la rassicurante ciclicità dell'autunno, l'ultimo di Sally Rooney, cosa cerchiamo nei libri
Ciao,
sì, lo so, ne è passato di tempo. Io sono Laura e questa è Càpita, tornata in splendida forma e pronta a spaccare il capello in quattro per capire l’età adulta e poi trovarne altri quattro per ciascun capello, e avanti così a oltranza.
Vestitevi che comincia a fare freddo, e iscrivetevi a Càpita se non l’avete ancora fatto, c’è il bottone qui sopra.
Ho ancora un intero cassetto pieno di magliette a maniche corte ripiegate e ordinate rigorosamente per colore, non ho quasi avuto il tempo di finire il cambio dell’armadio quest’anno, è arrivato l’autunno, è arrivato di colpo, ero in monopattino la mattina - i monopattini, questi mezzi bizzarri per cui ti senti un ridicolo coglione i primi 4 minuti che lo utilizzi, e poi torni ad avere 10 anni mentre fai i 19.8 km/h lungo viale Codalunga, andando in ufficio in 16 minuti esatti, la metà spaccata di quanto ci metto in tram -, dicevo arriva l’autunno, arriva il freddo, la mattina vado in ufficio in monopattino perché sono in ritardo, la sera sono sotto tre strati di coperte e due piumoni con 38 di febbre. L’autunno è arrivato da così poco e così di colpo che quando apro la gallery non trovo foto che descrivono questi giorni da postare sul mio feed, ci sono solo i selfie nell’ascensore della mia terapista, o sulla porta a specchio alla base dell’edificio, che hanno riflesso i miei capelli, i miei cappotti, i miei cambiamenti nel corso di questi tre anni.
Nel mio cervello, il cambio di una stagione si manifesta in tutta la sua concretezza nel momento in cui le giacche in entrata vengono sostituite da altre giacche di pesantezza diversa, nel caso dell’autunno le più pesanti sostituiscono le leggere, seguendo una specie di calendario secondo cui ad agosto corrisponde “felpa”, a settembre “giubbino in jeans o pelle”, e a ottobre “cappotto” - ho parlato di questa cosa con un’amica che di recente è andata a vivere da sola, realizzando che iniziare a costruire delle abitudini tue dall’inizio alla fine e non perché te lo dice qualcuno (come i tuoi genitori, naturalmente), è forse l’inizio della vita da adulta. Per me scegliere quale giacca mettermi in base alla temperatura esterna, agitando la mano fuori dalla finestra in quel mio modo cretino di provare a percepire quanto freddo c’è, e non farlo perché “qualcuno” me lo dice, è stato forse la prima vera azione da adulta consapevole che prova a badare a sé stessa.
Insieme al cambio delle giacche, la fragile pellicola di lacrime che si forma mentre vado in bici la mattina, e la soddisfazione di aver camminato sulla foglia che sembra la più scricchiolante di tutte, mi riportano al momento in cui tornavo a scuola dopo l’estate. Ce ne sono stati tanti di ritorni, certo, ma io ricordo soprattutto quelli impressi nella mia memoria più recente, durante le scuole superiori.
Ho sempre trovato rassicurante la ciclicità della mia vita adolescente: l’orario con le materie che scandivano le mattinate - il sollievo dei giorni più leggeri con due ore di ginnastica, o di disegno, o di inglese, il fardello mentale di filosofia, o latino, ore accorpate a due a due come delle mattonelle -, gli allenamenti di pallavolo e la partita, le riunioni con gli scout, le finestre orarie sempre più ampie per studiare più mi avvicinavo alla quinta, i weekend con gli amici nelle stesse case con le stesse persone. Se c’è stato un momento in cui non dovevo chiedermi chi fossi era quello, quando la mia identità corrispondeva agli impegni che riempivano la mia settimana con cadenza tranquillizzante, talmente definita da non farmi percepire di avere un vero e proprio arbitrio su essi, ma che mi restituivano una sensazione di tonda completezza, ero quella cosa lì, quel acciottolato di impegni più o meno agevolmente calpestabili, che guarda caso cominciavano con l’arrivo dell’autunno.
Di ciclico oggi nella mia vita c’è ben poco se prendo come termine di paragone gli anni delle superiori, ma una cosa che è rimasta invariata è l’ossatura di persone della cerchia sociale con cui sono cresciuta, quella che metteva la casa il sabato sera per la pizza e che nel tempo è stato il tetto sotto cui abbiamo festeggiato compleanni, Erasmus e proposte di matrimonio.
La mia psicologa dice che il passaggio da adolescente ad adulto è una fase che dura anni e non per forza accade, che c’è chi a cinquant’anni ha ancora rigurgiti comportamentali da diciottenne; a me piace osservare come cambio io e come cambiano le persone attorno a me, come si modellano le relazioni, fisarmoniche di amicizie e trame di improbabili amori, ho passato i sabati sera ad analizzarlo con il whiskey che Gianmarco mi costringe a bere solo perché tenere in mano un bicchiere con un dito di lava e il fondo bombato dà un certo tono. Ma ecco, se in questo tapis roulant che è la nostra crescita esistono tante fasi, tanti momenti di passaggio siglati con una firma su un documento ufficiale, come un immobile che viene comprato o una pubblicazione appesa fuori dal Comune, poche cose rendono corporea l’adultità come il banale e al tempo stesso straordinario annuncio dell’arrivo di un nuovo essere umano nella vita di persone con cui hai condiviso parte della tua, di vita.
A osservare i traguardi di chi ci sta accanto, si cade spesso nell’errore di paragonare le tappe della propria vita a quelle altrui, su una bilancia in cui c’è sempre un vincente e un perdente, e il primo non sei mai tu. Lo faccio anche io quando guardo i miei coetanei che si fidanzano e poi sposano, quando comprano casa e fanno un figlio, mentre io sto cercando di trovare un match su Tinder che sappia scrivere più di un messaggio in italiano corrente - dalla mia esperienza, statisticamente se ne matchi 10 almeno 5 non scrivono o risponderanno mai, mentre di quelli che rimangono 2 sono analfabeti funzionali, altri 2 li perdi prima di passare al contatto su Instagram, e forse con 1 riesci a uscire -, ed è in momenti come questo che il senso di incompletezza che mi vive sottopelle fa capolino, e non ho capito esattamente da cosa dipenda, se è legato al fatto di non poter condividere le belle e le brutte notizie con qualcuno, quel qualcuno, e chissà perché questo senso di inadeguatezza riguarda sempre il piano sentimentale, è pressione sociale?, sono io o sono loro?, ma soprattutto è davvero tutto ridotto a questo, serve per forza l’altra metà della mela per legittimare e dare significato al proprio modo di vivere, soprattutto agli occhi degli altri? Quanto, dell’incompletezza che sento, ha a che vedere con il peso di un modello di vita che è sempre valso per i nostri genitori e i nostri nonni e chi prima di loro, fatto di tappe ben definite da raggiungere, passi sulla sabbia da ricalcare senza poter tracciare un altro percorso senza venire più o meno esplicitamente giudicati?
Sono brava a essere giudice implacabile di me stessa, ma mi viene meglio essere indulgente con chi mi circonda, a cui per prima ricordo che non esiste alcuna gara, esistono individualità diverse e scelte diverse che portano a percorsi di vita diversi, un frattale di biforcazioni che apre possibilità su possibilità; che certo, quando hai quasi trent’anni sono diverse da quelle di quando ne avevi venti, mentre eri circondato da porte aperte che dovevi solo scegliere in quale entrare e se non ti piaceva bastava uscire e provare con quella successiva, tentando, plasmando la tua identità sulla base di esperienze anche superficiali, con la fiducia che sarebbe andato tutto bene a un certo punto.
Eileen, una delle protagoniste di Beautiful world, where are you, l’ultimo libro di Sally Rooney che sto leggendo in questi giorni, a un certo punto, in uno scambio email con la sua amica Alice, realizza la differenza tra il modo in cui vive la vita a quasi trent’anni, e come viveva quando ne aveva ventitre:
All my feelings and experiences were in one sense extremely intense, and in another sense completely trivial, because none of my decisions seemed to have any consequences, and nothing about my life - the job, the apartment, the desires, the love affairs - struck me as permanent. I felt anything was possible, that there were no doors shut behind me, and that out there somewhere, as yet unknown, there were people who would love and admire me and want to make me happy. Maybe that explains in some way the openness I felt toward the world maybe without knowing it, I was anticipating my future, I was watching for signs.
Ognuno sa cosa cerca in un libro, io ho capito solo di recente che se mentre da adolescente leggevo per scappare lontano, preferendo mondi fatati, creature fantastiche e avventure improbabili, ora lo faccio per comprendere meglio cosa mi succede, cosa vivo dentro e fuori, per razionalizzare cose a cui non riesco a dare bene un nome o una forma, cerco una voce che mi dica ”ehi io in questa cosa ci sono passato, ho pensato anche io quello che pensi tu ora, siediti che ti spiego”.
È in queste parole qui, della Rooney, che ho realizzato come trovarsi più vicini ai trenta rispetto ai venti implica che le scelte che faccio oggi, a differenza di cinque, sette anni fa, parlano molto di più della persona che inizio a essere in modo definitivo, una sorta di consolidamento di quello che sarò, in una realtà fatta di meno possibilità, meno porte aperte, ma più consistenti, perché parlano della persona che diventerò in modo sostanziale, corporeo, quasi percepibile a occhio nudo da adesso in avanti. Ha un che di spaventoso, certo, ma è anche figo, è come avere un teaser di me tra dieci anni. E per quel momento, spero aver imparato a tagliare le mele come si deve.
Cose che mi sono capitate tra le mani
What should I read next, il sito dove devi andare se ami parecchio leggere. Funziona così: ti è piaciuto un libro? Inserisci il titolo nella barra di ricerca e troverai almeno altri 10 suggerimenti di libri che potrebbero piacerti. Ah, funziona solo con i testi in inglese.
La metà scomparsa di Brit Bennett, la storia di due sorelle gemelle che condividono la loro vita fino a quando una delle due scompare, uno dei libri più belli che abbia letto negli ultimi tempi. È un romanzo denso, corposo, che riesce a raccontare in modo delicato e per niente banale la questione razziale e l’identità di genere, che in questo momento storico sono così caldi e sulla bocca di tutti.
Pulizie autunnali, sistemata camera, spostato cappotti, cambio dell’armadio finito, eccomi qui:
Che gaso l’ultima di Stromae.
‘Gen Z’ Only Exists in Your Head di Joe Pinsker, un lungo pezzo sull’Atlantic che racconta come le etichette generazionali - Baby Boomers, Millennial, Gen Z, ecc - siano poco utili per molte ragioni, come per esempio stereotipare e generalizzare alcuni tratti comuni a decine di migliaia di persone perdendosi le sfumature.
Be Okay Creativity, un progetto su Instagram che sensibilizza sul tema della salute mentale all’interno dell’industria creativa, con l’obiettivo di rendere il mondo della comunicazione un posto migliore e non nascondere i problemi sotto il tappeto.
Ok, anche l’ultimo disco di James Blake non scherza.
La newsletter con il più alto tasso di Kermit è terminata, vuoi consigliarla a qualcuno a cui potrebbe piacere? Ecco, usa questo link qui:
Ci sentiamo tra qualche settimana, vado a scegliere con quale cappotto uscire.
Baci stellari,
Laura