#17: Miss Americana viene da Rovigo
su Taylor Swift, l'America, e come i nostri sogni ci vengono a cercare
Ciao,
io sono Laura, so che è passato un po’ ma spero non ti sia dimenticatə di Càpita, la newsletter che attraversa l’età adulta su un piccolo barchino in una valle di lacrime.
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Tre sveglie, una sala riunioni, una story manifestando apertamente e un santino dovranno bastare, mi sono detta. Il santino Greta l’aveva deposto in modo solenne davanti al computer, poi era passata Alessandra che aveva appoggiato un post-it tra i nostri computer, aggiungendo “Ho scritto questo incantesimo per voi, lo metto qui.” Ho aggiustato l’immagine votiva accanto alla finestra di Chrome appositamente predisposta, ho aperto il link corretto, e mi sono messa in coda alla coda. Alle 12 si sono aperti i cancelli, e il mio piccolo omino ha iniziato a camminare lentamente, troppo lentamente per tutto l’altare esoterico sul quale avevamo sacrificato il nostro manco così recondito desiderio. Dopo 45 minuti sono entrata su TicketOne, nei due successivi ho capito che i biglietti erano finiti, anche quelli con la visuale ostruita ai quali ho deciso di piegarmi all’ultimo per disperazione, e comunque troppo tardi. Non sarei andata all’Eras Tour di Taylor Swift - e apparentemente non ci sarebbe andato nemmeno metà Twitter, una magra consolazione. Però cazzo.
Tra il momento in cui Teardrops of my guitar e Love Story erano resident di punta nel mio iPod nano, e quello in cui lo scambio con Alessandro nei dm di ogni social in cui siamo entrambi presenti si è fatto più fitto di meme sui procioni e su Taylor Swift, scherzando sull’immagine di noi chiusi fuori da San Siro urlando le canzoni dell’Eras Tour nel parcheggio con altri poveri stronzi, c’è stata l’America.
Nella casa dei nonni, che da un certo punto in poi è diventata la casa dove ho vissuto più tempo in assoluto nella mia vita, l’America era ovunque. C’era non saprei dire da quando, poteva essere ieri oppure dieci anni fa, la incontravo quando andavo a mangiare lì dopo la scuola. Era negli oggetti che mi capitavano ogni tanto in mano, come uno strano cartoncino ricoperto di stoffa satinata rosso scuro con una specie di papalina al centro: era il “tocco” del diploma che poco dopo avrei iniziato a vedere nei telefilm americani, quello che mi sono sempre chiesta come fai a capire se è il tuo o quello di qualcun altro dopo che l’hai lanciato in aria. C’era un cappello con scritto “Where the hell is Hayfork”, e io di Hayfork sentivo parlare spesso quasi quanto dell’America, soprattutto dentro il libro col dorso ruvido e la scritta “Eighty five” sulla copertina, colmo di facce e piccoli blocchi di testo trascritti a penna, di foto di gente in pantaloncini corti da pallavolo o basket, album dei ricordi di vite che non erano la mia. Ma erano quella di mia mamma.
Nel 1985, ampiamente before it was cool, mia mamma è salita su un aereo insieme alle sue due migliori amiche, per frequentare la quarta superiore all’estero: è capitata in un paesino dimenticato da dio in California a qualche ora da Sacramento, Hayfork appunto. C’è andata quando non esisteva alcun tipo di un sistema di comunicazione che permettesse un contatto istantaneo tra lei e i miei nonni: una volta alla settimana c’erano le telefonate, le lettere invece arrivavano una ogni due. Le ho trovate dentro una scatola: sulle buste c’era un motivetto rosso, verde e bianco, e fuori questo timbro, “par avion”, perché nel 1985 le lettere si pagavano a peso, e la carta doveva pesare poco. Ogni lettera aveva almeno tre, quattro fogli, riconoscevo le calligrafie diverse, tra cui quella che anni dopo mi avrebbe firmato le giustificazioni sul libretto. Ci avevo passato interi pomeriggi, distribuendole sul pavimento intorno a me, mentre una curiosità clandestina guidava i miei gesti e i miei pensieri.
Il ruolo che oggi detengo con orgoglio, quello di head of idealizzazioni più o meno giustificate, è nato in questo momento della mia vita, gonfiato dal vento dell’incoscienza e del totale scollamento dalla realtà che provi solo quando hai 14 anni e non sai niente degli impedimenti della vita, e quello che vuoi diventa un desiderio così assoluto e totalizzante da non permetterti di pensare ad altro.
Per qualcuno è passione, per me è stata ossessione, un mondo confezionato con la cura che mettevo nelle formine de La Fabbrica dei Mostri a casa della mia migliore amica ricca quando ero bambina, così nella mia testa si sono mischiati colori pastello, unicorni, armadietti da high school, s’mores, prom, cheerleader, e tutto quello che vedevo il sabato pomeriggio dopo Top of the Pops. Ho iniziato a frequentare assiduamente i siti di WEP e Intercultura, ho scoperto i forum dove gli exchange student raccontavano la loro esperienza, li ho letti tutti da cima a fondo conoscendo le tappe, imparando il processo, familiarizzando con le evoluzioni di una persona durante l’anno più incredibile della sua vita.
Più o meno quando ho scoperto Teardrops of my guitar, cantata da questa tizia con una chitarra al collo, il ciuffo drammaticamente piastrato e i boccoli biondi fatti con il ferro, ho vissuto anche il senior year di Mery per interposta persona, direttamente dal suo blog di MSN. Mery era originaria di Roma, ed era pazza di Taylor Swift: aveva un paio di anni più di me, era partita per l’anno all’estero ed era capitata in Oregon, con una famiglia adorabile, degli amici adorabili, in una scuola adorabile, e uno storytelling che mi aveva fatto desiderare di vivere la stessa cosa in un modo così disperato da non riuscire a canalizzare i pensieri altrove se non immaginandomi camminare negli stessi corridoi, tra gli stessi armadietti, partecipando allo stesso Homecoming, partita di football, Prom, lancio del curioso cappello quadrato da diploma. E poi mamma l’aveva fatto: e se l’aveva fatto lei perché non potevo farlo anche io?
Quando non sai bene chi sei ti cerchi in quello che sta attorno, che sappia esprimere per assonanza quello che senti dentro. Che siano persone che incontri o pagine che sfogli o scene che osservi, rovisti tra i dettagli nebulosi di ciò che conosci di te, li metti vicino e provi a vedere se si somigliano: gli occhiali sul comodino, gli scarabocchi ai bordi del quaderno, gli angoli della copertine consumate, le feste che ti fa schifo frequentare ma che devi continuare a far finta ti piacciano, la birra che ti fa schifo bere ma che devi continuare a far finta ti piaccia. Vale anche per i sogni degli altri, che capita diventino i tuoi. Rielaborati e assimilati per osmosi e ispirazione in una forma a te più scibile, perché danno una risposta a quello che ancora non sai di volere, ma prendono l’aspetto delle possibilità che vorresti trovarti davanti alzandoti la mattina. È una sensazione che poi ho trovato comune a tutte le volte che ho immaginato una vita diversa da quella che avevo, che mi ricordavano di smettere di essere una ottima attrive non protagonista della stagione e iniziare invece la mia main character era, scegliendo la mia personale definizione di pienezza, necessariamente diversa da quella di chi mi circondava.
Nell’estate tra la quarta e la quinta superiore, a luglio, sono salita su un aereo che mi ha portato a New York. Fearless era uscito l’anno prima, Taylor cantava Our song, White horse, Love story, accendevo Deejay tv e mi trovavo davanti la sua faccia occhialuta davanti alla finestra mentre fa la sottona col bono della casa accanto nel video di You belong with me.
Ho vissuto per un po’ in una casa di legno senza steccato e a malapena con una serratura, affacciata su uno dei “Finger lakes”, la mia camera era in un seminterrato umido, la mia sorella americana si chiamava Caroline. C'era lei, che era la più piccola, altri quattro fratelli, Eddie, Zandra, Linus, Beatrice, ognuno in un college diverso dell’Ivy League, un papà in pensione e una mamma agente immobiliare. Era lei quella che guidava nello stato di New York, attraverso Vermont, Maine, New Hampshire, Massachusets, Rhode Island e Connecticut, mentre Caroline cercava il college con il miglior programma di track and field, e io nel sedile dietro a fare foto nel periodo in cui bastava avere una reflex della Nikon per immaginare una carriera spianata come street photographer.
Quell’estate ho fatto molte cose che non avevo mai fatto. Sono rimasta esterrefatta dal bicchiere di latte che Beatrice, la sorella di Caroline appena tornata dal suo anno all’estero a Cracovia, si versava mentre mangiava il pesce grigliato da suo padre. Ho scaricato Instagram per la prima volta perché Claire, un’amica di Caroline, l’aveva già da un po’ e lì aveva postato un paio di foto delle sue vacanze in Sudafrica. Ho messo nel mio iPod alcune canzoni che, mi sono accorta poi, sarebbero diventate famose in Italia più o meno sei mesi dopo, e mi sono sentita Sibilla Cooman quando l’ho realizzato. Ho saltato per interi pomeriggi sul tappeto elastico di Kealy, un’altra amica di Caroline, guardando il tramonto dalla cima della collinetta su cui si trovava la sua casa con affaccio sul lago di Skaneateles. Ho scoperto cosa fosse il pre-game, la consuetudine di aprire l’armadietto dei liquori dei genitori prima di una festa, per arrivarci praticamente già wasted.
Ho imparato quali fossero le corrette dimensioni di un letto king size grazie alla coperta che la mamma di Caroline mi ha regalato uno degli ultimi giorni, una coperta molto calda, in pile, con scritto “Skaneateles Lake” in cui mi avvolgo ancora oggi ogni inverno da circa una decina di anni.
Un pomeriggio di alcune settimane fa ho scoperto che TicketOne avrebbe rimesso in vendita alcuni biglietti avanzati non so come per le date italiane di Taylor Swift. Mi sono collegata al sito con rassegnazione, “Accedi alla vendita”, omino che procede lentamente in coda. Meno lentamente questa volta. Mi si sono aperte le porte della sezione dell’artista, codice, pioggia di biglietti nelle fasce di prezzo a me accessibili, cioè gli anelli. Per mezz’ora ho messo nel carrello due biglietti, poi uno soltanto. E ci sono riuscita. Un. Biglietto. Non ho un ricordo preciso delle azioni successive, come di norma succede quando le emozioni prendono il sopravvento in modo confuso, so però di aver ricevuto una mail pochi secondi dopo che non solo mi dava conferma dell’acquisto, ma mi comunicava di avere un biglietto per la tribuna d’onore, un posto destinato ai Vip pack da più di ottocento euro ma riconvertito a un budget accessibile per mancanza di acquirenti. Puro caso. O puro karma.
Cose che mi sono capitate
Tomorrow, and tomorrow, and tomorrow di Gabrielle Zevin, la risposta che darei se mi chiedessero qual è il mio libro del 2023: una storia bella, densa, nella quale affondare le mani e trovarci un po’ di tutto, pizzerie coreane, affissioni 3D, dubbi etici di proporzioni giganti, Macbeth, tantissimo amore nelle sue forme più ampie e variegate, e poi il gaming, cornice e protagonista - del quale non serve conoscere granché per apprezzare l’intera vicenda.
Un cortometraggio sorprendente.
TikTok vs dating: se il tizio con cui esci ti ruba un paio di Tabi, puoi sempre smerdarlo su TikTok e magari alla fine le recuperi, come è successo a lei.
La seconda stagione di The Bear, bella forse anche più della prima, e non solo per la presenza di Taylor Swift in una delle puntate più belle (2x07) su uno dei personaggi che ha l’evoluzione più bella (Richie <3):
Le relazioni più lunghe della nostra vita di Angela Chen sull’Atlantic, che parla dei fratelli e delle sorelle: che sono costretti a stare insieme perché accomunati dallo stesso nucleo famigliare, e di come poi arrivi l’indipendenza dell’età adulta, che “crea per loro l’opportunità di costruire, riparare o eliminare le relazioni della giovinezza, per restare intrappolati o liberarsi dei ruoli che hanno avuto nell’infanzia” e riscrivere il loro legame.
Uomini, voi quanto spesso pensate all’impero romano?
Tutti conosciamo almeno unə swiftie - e se non lo conosci è possibile che quella persona sia tu. Mandagli questa newsletter, credo possiamo considerarla un friendship bracelet.
Ci sentiamo presto,
Laura
Che meraviglia meravigliosa!