Ehi ciao,
quanto tempo. Io sono Laura e questa è Càpita, la newsletter che in questi ultimi mesi ha preso un po’ di polvere sullo scaffale ma è tornata nel suo fulgido splendore, per piangere sull’età adulta versata.
È un personaggio bizzarro, Bianca. Il che credo sia anche il motivo per cui la adoro.
Quando eravamo adolescenti riceveva lunghe telefonate da sua madre, “Sì, ciao mamma, dimmi”, appoggiava il telefono sulla panchina e continuava a fare quello che stava facendo, chiacchierare con noi, sistemarsi i capelli, allacciarsi le scarpe, per riprenderlo in mano 10 minuti dopo e dire con noncuranza, “Sì, torno alle 19, ci vediamo stasera, a dopo, sì, ciao”, e rimetterlo in tasca.
Telefona ancora, e spesso a me, le nostre sono videochiamate in cui mi allungo sul tappetino da yoga mentre faccio addominali, oppure sistemo il piumone con quel metodo che ho trovato sul Post, lei intanto fa jogging per il centro di Bruxelles, oppure è all’alimentari a fare la spesa, “Scusa, aspetta un attimo che devo pagare”, parla al commesso in francese, gli chiede una busta, esce, “Cosa stavi dicendo?”
Dopo una settimana di messaggi fitti con Alessio è a lei che scrivo “C’è un problema, io cotta di questo tizio, grazie per aver partecipato al mio Ted Talk”, ed è lì che mi arriva la prima sberla, “Non l’hai mai visto, non è possibile, puoi essere cotta dopo 5 date, non già adesso”. Hai ragione Bianca, hai ragione cazzo, ed è per questo che ti adoro.
Ci ho provato tante volte, io, a spiegarlo alla mia terapeuta, poi non so se sia una questione generazionale o di nulla familiarità col mezzo, lei che non ha vissuto lo stravolgimento delle relazioni interpersonali con internet, ma soprattutto dopo la pandemia. Non basta avere un paio di app installate sul telefono per rendere il dating un’esperienza appetibile, addirittura piacevole: a me avere un parterre di potenziali match trasmette più ansia che eccitazione, è quel parterre a ricordarmi cosa c’è là fuori nel suo più ampio range di sfumature di umanità, a partire da Fabrisio - con la s al posto della z, sì, non è un refuso -, che porta un completo da carabiniere con un fit da costume da carnevale e tanto di paletta in mano, che mi fa pensare a) cosa cazzo ti dice il cervello per pensare di mettere una foto del genere su un’app di dating, b) è davvero questo il livello medio a cui posso aspirare, tra quello che c’è là fuori? E quindi li scarto tutti, ciao, ciao ciao, buon lavoro, pensando che il mare è pieno di pesci, che se non è questo sarà il prossimo.
Non mi aiutano nemmeno le linee guida che mi ha lasciato Chiara durante un aperitivo, che ne ha viste tante ma veramente tante, e che dopo la sua intensa parentesi di date dice di evitare quelli che nelle foto hanno il costume a slippino, figurarsi se bianco, i selfie in macchina, e la combinazione barca col mocassino. Io per sfinimento seguo il consiglio, e avevo quasi perso del tutto le speranze quando, dopo un match che nemmeno mi ricordavo di aver fatto, Alessio mi scrive “Secondo me sei sarda”.
La nostra conversazione fa click abbastanza presto, approccia con una battuta, rispondo con una battuta, quello che segue cammina in equilibrio tra nonsense e ironia e funziona, o meglio, funziona per me, funziona perché è una cosa leggera e alla quale posso dimenticarmi di rispondere per delle ore ed è ok, poi succede anche a lui ed è ugualmente ok. Abbiamo le stesse pagine meme di riferimento, il che nel 2022 equivale ad avere gli stessi codici di comunicazione, e il fatto di essere entrambi incazzati con il PD da scegliere di votare i Verdi alle elezioni fa il resto. Mi propone di vederci per commentare insieme il documentario su Wanna Marchi, oppure se preferisco possiamo seguire la maratona di Mentana per lo spoglio delle elezioni, sempre se ho voglia di raggiungerlo a Venezia dove vive e lavora.
Tra il momento in cui ci scambiamo il primo messaggio su Tinder e quello in cui ci vediamo passano tre settimane, il suo lavoro, il mio lavoro che non coincide con le sue giornate libere dai turni, il ritorno a casa per le elezioni. Ci mettiamo d’accordo per una domenica ma per fortuna la mia ansia da prestazione viene fottuta dal vocale che ricevo il giorno prima, dopo aver visto la mostra di Anish Kapoor, “Io ho finito di lavorare prima, so che sei a Venezia, che facciamo, ci vediamo?” Io scendo dal treno, compro un correttore travel size da Sephora, prendo il vaporetto e ci incontriamo sul ponte dell’Accademia.
Dopo un vino sono brilla, dopo tre nell’iperuranio, il mal di testa mi martella la fronte e mi ricorda che ho dimenticato di condividere la mia posizione su Whatsapp alle mie amiche. Lui arriva da lavoro e mi chiede se voglio bere il prossimo in Campo Santa Margherita, certo, andiamo, prima però deve passare per casa a lasciare lo zaino. Questa proposta ha delle implicazioni, ci penso mentre la bambina dentro di me, che è stata sovrappeso tutta la vita, gioisce quando lui mi prende in braccio per spostarci dalla cucina al salotto.
Non succede nulla di più, mangiamo una fetta di pizza dal kebabbaro prima del mio ultimo treno, diamo delle informazioni in spagnolo a una signora che deve arrivare a Santa Marta, e io saltello su Calatrava dopo l’ennesimo limone da tredicenni che ci siamo scambiati pensando a quel “Sei a tuo agio, è tutto ok?” che mi ha domandato poco prima.
Ci vediamo ancora, ed è una strana sensazione quella che provo mentre porto uno sconosciuto a passeggiare in luoghi a cui sono affezionata, su cui è costruita la mia identità, è come fargli scivolare in tasca le chiavi di casa senza che se ne accorga, permettergli in qualche modo di aver accesso a dei luoghi sacri che mi appartengono e che lui attraversa in modo inconsapevole, che è anche una specie di scommessa che un po’ te li rovinerà quei posti, se la perderai. Ci penso mentre siamo ai Tadi, e quando poi saliamo da me. “Ci rivediamo?” gli chiedo poi, addentando un panzerotto, “Se vuoi sì” mi risponde lui.
Due giorni dopo scopro cos’è il ghosting, e il fatto che sia parte del pacchetto quando scegli di usare un’app di dating, come mi dicono le amiche che ne hanno già fatto una composta esperienza, non lo rende meno una merda.
Frequentare qualcuno ha tantissime sfumature, così come le ha il modo in cui ti può piacere. Puoi volerci parlare, uscire a bere, fare sesso, scherzare, parlare di politica, senza che questo necessariamente comporti applicare un’etichetta o dare un’accelerata domandando più di quanto l’altro abbia o voglia dare, senza smettere di essere realisti su come i rapporti si costruiscono, e che siano proprio sperimentare tutte queste scale di grigi a determinare cosa diventerà un rapporto. Basta essere onesti abbastanza da sapere cosa si vuole, ed essere in grado di comunicarlo all’altra persona, perché qualunque spiegazione, vera o fasulla che sia, è meglio dell’ingiustificato senso di colpa, o vergogna, o rifiuto di chi si trova davanti all’interruzione di ogni comunicazione dall’oggi al domani quando non ce n’erano stati i presupposti.
Il dating oggi è praticamente un gioco, lo swipe imita la stessa azione che facevamo con il pollice da piccoli con le figurine, con la differenza che le persone che tieni o scarti sono vere, e provano delle cose. Ed è tutta un’altra cosa non solo se paragonato a come si costruivano i rapporti tra i nostri nonni, e genitori, ma anche tra i miei più cari amici che si sono messi insieme cinque, sette, dieci anni fa. E io li apprezzo i consigli che mi danno, il “Troverai quello giusto”, “Ah non si è più fatto sentire? Non ti merita”, ma poche situazioni sono comparabili alla frustrazione di raccontare a 20 sconosciuti in sequenza ai quali piace la pizza e fare festa - la pizza è diventata un tratto della personalità dei maschi bianchi sulle app di dating, l’ha detto per prima Dolly Alderton e su base empirica mi trovo d’accordo -, che probabilmente stanno usando la tua stessa app per noia o per avere un boost di autostima, che hanno infinita scelta ma uno span di attenzione troppo ridotto, in cosa consiste esattamente il tuo lavoro di copywriter, sapendo che ci sono almeno dieci ostacoli che possono portare la conversazione a incepparsi prima di convincerci entrambi a uscire a bere una cosa.
Le conversazioni che ho con Bianca ogni tanto mi ricordano la schiettezza degli scambi dei libri che mi vado a cercare in questa fase della vita, e nei quali mi piace leggere le storture nei rapporti tra i miei coetanei, e spesso glielo dico anche, durante le nostre telefonate. Sono l’appunto mentale delle mie cose preferite in un’amicizia, una combinazione di empatia e onestà tagliente, il motivo per cui sono grata che dopo quel vocale di 9 minuti in cui le raccontavo della mia prima esperienza col ghosting lei non mi abbia risposto “Te l’avevo detto” ma “Amo, I get it.”
Cose che mi sono capitate
Tutte le job position che potrei aggiungere su LinkedIn, vista la quantità di date che ho fatto da quando uso Tinder o Bumble;
L’unica pagina meme di riferimento che esprime il mio sentimento anticapitalista in modo puntuale:
I’m Thrilled to Announce That Nothing Is Going On with Me di Alex Baia sul New Yorker, sul non avere niente da dire, ma dirlo benissimo;
Una fotografia del mio Spotify Wrapped di quest’anno;
Un pezzo incredibile di Giulia Pilotti su Domani, sul mercato immobiliare di Milano, miglior metafora?, “Il Rolex dei Millennial: il Dyson”;
Le red flag, spiegate mega bene;
Amo troppo noi:
Cosa succederà tra me e il mio responsabile la mattina in cui apriranno le prevendite per il tour mondiale di Taylor Swift;
La seconda stagione di “The Sex Lives of College Girls”, scritta da Mindy Kaling, che tra le co-protagoniste ha anche Pauline Chalamet - la sorella di Timothée -, una delle cose più divertenti, leggere, intelligenti, piene di inside joke raffinati che abbia visto ultimamente.
Càpita ti è piaciuta, conosci qualcunə che abbia esperienziato il ghosting, e vuoi consolarlə sul fatto che è possibile uscirne in modo dignitoso, nonostante sia una merda?
Ora devo andare, il mio impegno come ambassador di Shein per il quale ho ricevuto una carta regalo da 800€ mi aspetta.
A presto,
Laura