#15: Attenzione, porte non automatiche
sul cambiamento, Euphoria e villain era, e perseveranza nell'andare in palestra
Ehi ciao,
io sono Laura e questa è Càpita, la newsletter che prende sfilacciamenti dell’età adulta e li mette insieme in un complicato arazzo, che nel mio caso pare prodotto da un bambino di 4 anni.
Lo so, è un po’ che non ci sentiamo, una piccola postilla su questo. Non so come funzionate voi, io funziono che le cose che mi succedono e che succedono intorno a me devo lasciarle depositare, e assorbire. L’industry della comunicazione ha un ritmo frenetico che senza dubbio non aiuta, ma razionalizzare quello che è successo oltre alla quotidianità disastrata di questi due anni - come lo scoppio della guerra, che ha toccato le vite di persone anche molto vicine a me - è stato spossante, e ha avuto come conseguenza una stanchezza fisica e mentale che forse inizio a digerire solo ora.
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La metà di novembre è un momento dell’anno improbabile per mettere in pratica dei buoni propositi, ma la mia scheda è datata “16 novembre”, l’ha scritto Alberto, il personal trainer vicino ai settanta - sette zero - della palestra in cui ho iniziato ad andare negli ultimi mesi. Si sposta tra gli attrezzi come un nonnino, chiede se va tutto bene, mi aiuta con il marchingegno per fare gli hip thrust così che io non mi spacchi accidentalmente le ossa del bacino, e dopo la terza serie in cui ho tirato su al massimo cinque chili alza i pollici, mi sorride e dice “Molto bene, molto bene!”, un ritornello che è diventato letteralmente la sua firma, e che appare alla fine del mio foglio con gli esercizi sotto le parole “Molto bene Alby”, nessuna virgola o a capo, tre parole di fila così. Gli altri due personal trainer nelle loro fattezze di animatori di un villaggio turistico vengono in larga parte ignorati, ma Alby no: chiunque passa a salutarlo quando arriva e prima di andarsene, una pacca sulla spalla, un “Ciao, alla prossima”, tutti. Chissà cosa pensa delle persone che lo circondano: ci conosce per quelle manciate di ore passate lì, distribuisce incoraggiamenti in una carta colorata pronta da scartare.
Una mattina, sulla wave di endorfine che può concederti solo la consapevolezza di riuscire a perseguire un buon proposito con costanza, mi sono presentata in palestra alle 7.34. Sul volantino che mi hanno dato quando mi sono iscritta c’era scritto che sono aperti dalle 7, perciò ho sfidato con disciplina la sveglia presto e la temperatura vicino allo zero, mi sono messa la giacca e mi sono trascinata davanti alle porte che di solito si aprono in automatico con la fotocellula. Quella mattina non si sono aperte: ho spinto delicatamente, ci ho saltellato davanti, non si è attivato alcun sensore. Sono tornata a casa sconsolata. La sera stessa la mia coinquilina, che frequenta la stessa palestra, ha raccontato cos’era successo ad Alby, “Disattiviamo la fotocellula la mattina”, le ha detto ridendo, “Bastava tirare.” Clown emoji, sipario.
Il tipo di conversazione che ho con G. è un flusso continuo di pensieri che trovano voce quasi solo ed esclusivamente via Telegram, una settimana dopo l’altra: non si interrompe mai, dissacriamo, analizziamo, ritagliamo tutti gli inutili dettagli dell’età adulta e rincolliamo in fila così da renderceli comprensibili a vicenda quando non sembrano tali. Una sera di qualche settimana fa stavo formulando la risposta a uno dei suoi lunghi vocali quando mi sono trovata a pensare che ero cambiata ma non ero cambiata, e che il motivo era stata la terapia. Mi sono immaginata questo processo come un frutto succoso, denso, una pesca per esempio, che modifica il suo aspetto e matura, cambia la sua consistenza, cambia il modo in cui entra in contatto con il resto dei residenti della fruttiera ma resta intatta al suo interno, nel suo nocciolo, nella sua essenza.
Come si racconta quando si cambia? Come si descrive il processo di una cosa che prima era qualcosa e adesso lo è ancora ma in modo diverso? Qual è la metafora migliore, quali sono le parole più giuste?
Olga Khazan ha provato a cambiare la sua personalità in tre mesi, e ne ha scritto in un pezzo lunghissimo per l’Atlantic. La sua analisi parte dall’assunto che la personalità di ciascuno di noi è composta di 5 tratti principali: l’essere estroverso, quindi la socialità; la coscienziosità, cioè la capacità di essere disciplinati ed organizzati; la piacevolezza, cioè il modo di essere cordiali ed empatici verso l’altro; l’apertura, cioè la ricettività a idee e attività nuove; e poi il nevroticismo, cioè la stabilità emotiva, in altre parole quanto sei in grado di controllare le tue emozioni e i tuoi impulsi. Più il punteggio dei primi quattro tratti è alto - e quindi più basso l’ultimo -, più una persona è sana e felice.
Come cambia allora la personalità? Gli studi dicono che le circostanze e le persone di cui ci circondiamo hanno un vero impatto sul modo in cui sviluppiamo il nostro modo di essere e comportarci - vale per i nostri amici, per esempio frequentare persone estroverse ci renderà più socievoli. Per diventare più estroversa, Khazan frequenta alcune giornaliste che ammira, telefona a un vecchio amico e gli dice “Ti voglio bene!”, compra e compila un quaderno della gratitudine, prova a meditare senza grossi risultati.
La personalità rimane abbastanza stabile nel corso della vita, è più il temperamento a modificarsi nel tempo: cambiamo tantissimo durante l’adolescenza e all’inizio dei 20, ma con l’avanzare dell’età adulta evolviamo in modo più equilibrato. Spesso però la personalità si modifica in modo sostanziale anche nel giro di pochissimo tempo, tipo qualche settimana, seguendo una sorta di “Fake until you make it”, comportandosi cioè come la persona che vorremmo diventare fino a quando non lo diventiamo davvero.
Khazan nel pezzo parla però anche di come cambiamo in relazione a grossi eventi che impattano la nostra esistenza: iniziare un lavoro che ci piace farà crescere in coscienziosità, innamorarci farà calare drasticamente le nostre nevrosi.
But in general, it’s not the event that changes your personality; it’s the way you experience it.
Quando sono tornata a casa per le vacanze di Natale, ho sperimentato per la prima volta la sensazione che le persone che mi circondavano fossero abituate ad avere a che fare con qualcuno che non ero più. Certo, there’s no place like home, ma casa è anche quel luogo dove sei sempre figlio, come se la tua individualità di adulto dovesse per forza rovesciarsi in un recipiente con una forma ben definita che ti hanno regalato quando sei nato, e che rimane tale per tutta la tua vita.
Tornare a casa vuol dire sempre più infastidirmi o provare piacere per cose che prima mi erano indifferenti, avere reazioni che prima non avevo, e farlo presente, soprattutto se negative. Sono forse nella mia villain era?
Io ci scherzo ma TikTok ne ha fatto un trend, forse anche grazie a Euphoria: durante lo spettacolo di Lexi, Cassie incazzata a un certo punto dice “Well, if that makes me a villain, then so be it. I can play the fucking villain”. La villain era è la pratica di “rejecting the pressure to be nice 24/7 and set healthy boundaries”, una specie di cocktail di comportamenti che unisce empowering femminile a un progressivo amor proprio, definendo confini sani in rapporti che lo sono meno, agendo in modo assertivo - quanto cazzo sarebbe fiera di me la mia psicoterapeuta, sapendo che uso questi termini per il servizio pubblico -, fermo, deciso nel far rispettare il proprio spazio. In sostanza, piantarla di farsi andare bene le cose per forza mettendo a tacere quella vocina che dice “Però a te così non va bene”, smettere di compiacere gli altri - “choosing self-priority over people-pleasing” -, mettendo sé stessi e i propri bisogni per primi, anche quando questo vuol dire agire a scapito di altri e per questo essere percepiti come cattivi.
In fondo, forse è questa la linea sottile che divide egomania dalla capacità di volersi bene abbastanza da riconoscere ciò che ce lo rende difficile, che ci porta a vederlo, definirlo, circoscriverlo, e tenerlo a una distanza tale da non permettere che ci faccia male.
Ciò che la villain era ha in comune con l’hype che mi spinge in palestra tra le tre e le quattro volte la settimana è un pensiero che ho trovato formulato nel pezzo di Khazan, attraverso le parole di Jessica Pan, un’introversa che per un anno ha detto sì e basta a qualunque cosa le capitasse davanti:
Having the ability to morph, to change, to try on free traits, to expand or contract at will, offers me an incredible feeling of freedom and a source of hope.
Forse è il fatto di esser parte della generazione che ha normalizzato la terapia, ma la consapevolezza di poter cambiare, di poter correggere i propri toxic trait, di essere altro rispetto a come ci si è sempre conosciuti, regala la sensazione di poter affrontare in modo diverso le cose che succedono ogni giorno. Come trovare la porta di una palestra chiusa.
Cose che mi sono capitate
I gave myself three months to change my personality di Olga Khazan, il pezzo interessantissimo di cui parlo in lungo e in largo in questa Càpita, che merita di essere letto fino alla fine.
Una grande verità per cui ho riso più del dovuto.
L’ultima degli Aventura? No, ma l’ho pensato, è il ft di Rosalía con The Weeknd che non riesco a togliermi dalla testa.
Sono i meme sul processo Depp/Heard la cosa più bella del processo Depp/Heard? Io dico sì.
Un profilo di meme shitposting sui procioni:
Una chiacchierata che mi è piaciuta tanto sull’adulting, ovvero il fare gli adulti, tra Irene Graziosi e Sofia Viscardi con Pierluca Mariti (in arte @piuttosto_che), su Venti.
Gli Adelphighetti, “i libri che hai sempre voluto leggere, ma che ti vergognavi di acquistare”, con la dignità degli Adelphi, per esempio:
Un disco che mi fa saltellare, ancor più se in una giornata di sole.
Càpita ti è piaciuta? Hai mai provato a cambiare la tua personalità? Sì, e sei finitə per averne 23, di cui la tua preferita porta il nome di Patricia?
Non posso assicurarti che Càpita riuscirà ad avere una cadenza troppo frequente - per i motivi che trovi là all’inizio -, ma farò del mio meglio per mantenerla mensile.
Baci stellari,
Laura