#11: Certe ossessioni fanno giri immensi e poi ritornano
desideri adolescenti, passioni a capofitto, grandi amori che tornano sotto altre sembianze
Ciao,
io sono Laura e questa è Càpita, la newsletter col più alto tasso di Kermit che tu conosca che arriva un sabato sì e uno no e racconta non solo i casini della vita adulta, ma lo fa pure in versione long-form. Ti sono mancata?
A proposito, non fa già troppo caldo per vivere dignitosamente?
La linea del tiro libero incrocia quella di un campo da pallavolo in un punto preciso: chiunque si sia allenato in un centro polivalente o una palestra delle scuole elementari lo sa. Quel grande semicerchio si avvicina alla linea dei tre metri per poi allargarsi, e va a incrociare quella esterna di un campo da pallavolo esattamente a sei metri da rete. Rodrigo l’aveva guardata, era entrato in campo e le aveva detto di mettere quel dannato piede sinistro sopra l’incrocio delle linee, perché era lì che quella banda avrebbe continuato a schiacciare, ed era lì che sarebbe riuscita a difendere quella palla. Lei all’epoca era la piccoletta della squadra, una statura inversamente proporzionale a quanto era ostinata: l’azione successiva si era messa a difendere qualche metro più in là e la palla, ovviamente, era caduta proprio dove Rodrigo aveva messo il piede poco prima. All’incrocio delle righe.
A me poco importava: era maggio, e quella era solo un’amichevole a campionato finito, dopo che i play-off li avevamo giocati fino alla fine e mancato la promozione per un soffio.
Pareva una stagione come le altre, quella. A fine agosto nella palestra di viale Oroboni c’eravamo ritrovate sempre noi, con qualche piccolo innesto, certo, ma lì, a correre intorno alla struttura che affiancava la scuola materna, a dondolare le braccia per saltare a due piedi sui gradoni, a fare gli scatti a partire da fondocampo e ritorno su ogni singola linea dei due campi - il “suicidio” lo chiamavano, perché andava fatto così velocemente da finire in bagno con la nausea dalla fatica -, c’era sempre la stessa ossatura di squadra che ci saremmo portate dietro per anni. Durante uno di questi allenamenti, era arrivato lui: alto sì e no un metro e ottanta, veniva dal Brasile, dalla pallavolo, che là veniva presa sul serio, e quindi “Non è che avete bisogno di un allenatore, qui?”. Parlava a malapena italiano, talmente male che facevamo fatica a capire cosa dovevamo fare: ci diceva di metterci nella “quadra”, cioè il campo, e di fare “come a pallavolo”, cioè qualsiasi azione ricollegabile a un gesto del gioco.
Rodrigo quell’anno ha rivoluzionato il nostro concetto di pallavolo. Ogni allenamento riusciva a essere diverso dal precedente, rendendo i nostri tre, quattro appuntamenti settimanali un’esperienza nuova tutte le volte, noi che eravamo abituate a una struttura che si ripeteva a ciclo, riscaldamento, stretching, palla a coppie, tecnica, tecnica, tecnica, tecnica, partitella leggera, ma solo gli ultimi 20 minuti. Ci ha insegnato la tattica, le palle veloci come le faceva la prima squadra, la fast, la super, la palla da seconda linea, l’incrocio al centro, l’abitudine di guardare le dita dell’alzatore dietro la schiena, che in partita ti chiama l’attacco e tu l’hai letto, sei pronto a lanciarti su un secondo tempo che arriva veloce da zona due. Ha preso i ruoli che ci erano stati cuciti addosso e li ha limati, raffinandoli con pazienza.
Sebbene la sezione Ricordi di Facebook mi chiarisca tutte le volte la definizione di cringe (mamma, la definizione di “cringe” la trovi qui), mi stupisce sempre vedere la quantità di stati in terza persona, share antenati di quel “Ama, noi” di oggi, fotografie, inside joke legati alla pallavolo che mi sono lasciata dietro nel corso del tempo come le briciole di pane nel bosco. Ma mentre certe cose le vivi, soprattutto se lo fai in modo forsennato, non hai del tutto la percezione della dimensione totalizzante che hanno, anche se sono state il sottofondo di intere fasi della tua vita, il disco che hai messo sul piatto mentre ti occupavi di altro.
Quando cominci uno sport che non hai ancora finito le elementari, e gli permetti di accompagnarti fino a quando le cose della vita adulta non ti vengono a cercare per chiederti il conto, è difficile riuscire a chiudergli la porta in faccia in modo secco, deciso; succede che la accosti con delicatezza, e se proprio devi chiuderla ricordi bene dove hai messo la chiave. Con la pallavolo mi è successo così: mi ci sono gettata a capofitto per quindici anni e me ne sono ossessionata, l’ho giocata certo, ma ho tentato di assorbirne ogni dettaglio, annullando la distanza con qualsiasi dinamica mi impedisse di viverla tutta quanta, ho imparato nomi di giocatori, date di nascita, ho cercato storie, club di appartenenza, guardato dagli spalti la Sisley di Treviso e la Foppa di Bergamo, imparato schemi, spazzato campi di serie A durante i time-out, passato palloni a chi andava in battuta durante finali play-off scudetto, desiderato opportunità ma soprattutto centimetri in più di quelli che avevo, ambendo a una vita che non era la mia, non poteva essere la mia per ragioni prima di tutto fisiche, in uno sport in cui la corporatura è il primo biglietto che ti strappano se vuoi entrare in sala.
Ho scoperto e mi sono innamorata del Club Italia, il ritiro permanente al Centro Pavesi di Milano pensato dalla Federazione Italiana Pallavolo, che ospita, allena, forma un gruppo di sedici, diciassette, diciottenni, respirano le stesse giornate, e che vanno a dare la linfa al circuito delle Nazionali, e ho imparato che non basta desiderare tantissimo una cosa per averla, anche se la guardi da vicino, anche se la guardi vivere da qualcuno che fa la tua stessa identica vita, ma con tantissimi centimetri di differenza.
Sono una cosa curiosa le ossessioni, occupano spazio, bruciano tempo, consumano energie, coincidono con interi capitoli della vita. Un po’ di tempo fa ho scritto un pezzo in cui raccontavo come io abbia vissuto buona parte della mia vita senziente rincorrendo un obiettivo preposto che in quel momento per me era sinonimo di felicità: un lavoro, un profumo, una persona, un luogo, un’esperienza. Un voto, un progetto, un Erasmus, una job position. Mentre provavo a raggiungerlo io diventavo quell’obiettivo, io ero quella cosa lì, da quello dipendeva il mio successo, la mia soddisfazione, la mia realizzazione, la mia accettazione di me come persona, la strada da percorrere era quella, partiva dal mio desiderio e lì doveva arrivare.
L’ovvio bug di questo ragionamento è che non sempre riuscire nelle cose dipende solo dalla tua volontà e dal tuo impegno, e prima lo capisci prima impari a mettere a tacere il tuo gendarme interiore che ti impone disciplina assoluta se vuoi diventare ciò che desideri, e ti colpevolizza quando non ci riesci. E io, quando ho capito perché non sarei mai stata chiamata nel Club Italia, almeno ero abbastanza grande da sapere che non era solo questione di centimetri.
Crescere - o è la psicoterapia? - mi ha fatto scendere a compromessi col fatto che siamo esseri umani e quindi non bidimensionali, possiamo essere incoerenti, ambivalenti, possiamo cambiare idea, decidere che quell’obiettivo non ne vale più la pena, accorgerci che il desiderio che ci spinge alla base non è più così forte, o scoprire che ci sono altre porte da aprire, altre strade da percorrere per raggiungere la meta.
Alle volte il mio lavoro richiede che io prenda parte a delle produzioni video o foto su un set: non sono quasi mai fondamentale, io faccio la copywriter, il grosso del mio lavoro è prima, ma se scrivi un video poi può succedere che tu abbia la possibilità di osservare direttamente in loco se verrà come lo avevi pensato. L’ultima a cui ho partecipato è stata due settimane fa: le protagoniste erano le ragazze del Club Italia e Francesca Piccinini, uno dei primi poster che ho appeso dietro la porta quando ho iniziato a giocare.
La bambina che ero, l’adolescente che sono stata, e la persona che sono oggi si sono incontrate dietro alla camera per osservare da vicino le figure che ho guardato dentro un televisore, in un palazzetto, su un giornale per anni, fino a quando uno dei miei colleghi è venuto a chiamarmi perché la Piccinini, per esigenze di scena, doveva fare un paio di palleggi con qualcuno. Ma questa è un’altra storia, successa dentro quella “quadra”.
Cose che mi sono capitate tra le mani
Un micro Ted di Ethan Hawke, che parla di creatività;
il riassunto più fedele a queste settimane che potessi trovare:
il museo di Pingu in Giappone - no, non sto scherzando;
una postilla:
l’ultimo dei Kings of Convenience, finalmente, cristo;
gente che si tuffa male, malissimo, tipo lui:
E questo è quanto; torno in spiaggia a prendere il sole, ci vediamo tra due settimane, nel mentre puoi immaginarmi così:
Come sempre se hai qualcosa da dirmi mi trovi via mail, Instagram, Twitter, eccetera. Vabbè dai, ormai lo sai.
Baci stellari,
Laura