#10: My iper-produttività is killing me
nella società della performance, tra astrologia spiccia e welfare aziendale
Ehi ciao,
è sabato, io sono Laura e questa mail è Càpita, la newsletter che prova ad aprire come una scatoletta di tonno l’età adulta - solo che in genere quando lo faccio io l’anellino mi resta sempre in mano.
Una precisazione: se la prossima settimana ci sono meno di 15 gradi mi faccio saltare in aria. Grazie per aver partecipato al mio Ted Talk, possiamo cominciare.
Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la pop astrology, ovvero la “pratica aggiornata della sun-sign astrology, cioè quel complesso di credenze per cui si individua il segno zodiacale di una persona a partire dalla posizione del sole a momento della sua nascita” come è definita nell’illuminante puntata di zio sull’astrologia, sa che a un Capricorno corrispondono molte naturali inclinazioni, come il senso di beatitudine che genera la distanza dal contatto umano, oppure l’incapacità di dimostrare alle persone a cui vuole bene affetto o altri tipi di sentimenti di carattere positivo in modo appropriato. E nonostante questo, nonostante la smania di soldi, potere, successo, ma soprattutto soldi che caratterizza il mio sun-sign, non mi capita quasi mai di trovarmi con un gruzzolo a mia totale disposizione, che per cause esterne devo spendere, dilapidare da qualche parte. La sensazione è un po’ quella del regalo di fine anno scolastico che mi faceva la mamma, che integrava quello di promozione: andavamo in libreria e lì venivano pronunciate le parole che mi aprivano uno scenario celestiale, “Scegli il libro che vuoi”. Il libro che vuoi. Qualsiasi fosse, potevo averlo.
Conscia di avere davanti una prospettiva simile, lo scorso dicembre mi sono trovata a decidere cosa fare di un tesoretto avanzato nel mio fondo welfare - siano benedetti i soldi non tassati. Potevo spenderli in check-up medici, attività ricreative, trasporti, cose culturali, qualunque esercizio o attività commerciale che potesse ricevere un pagamento con fattura intestata alla società che mi stava mettendo in mano quei soldi. “Scegli quello che vuoi” ho sentito qualcuno sussurrarmi all’orecchio, e allora io sono andata a scegliermi un corso della Holden di Torino.
Non credo a quelli che dicono che la pandemia non abbia portato nulla di nulla di buono, almeno perché tra quello che ha lasciato sul tavolo del soggiorno prima di spostarsi in entrata e prendere la porta c’è stata un’offerta parecchio ampia di corsi online, che la Holden ti permette di seguire quando vuoi, come vuoi. Mi sono lambiccata per una settimana su quale fosse il corso più giusto per me, poi ho scelto Inventare fatti veri: scrivere un longform.
La retorica del sapore delle cose che ti compri è reale e palpabile quando spendi quasi cinquecento euro di tasca tua per una cosa che ti piace: è un investimento, è un’azione che stai facendo per te, di fatto stai investendo su di te, su una cosa che ti accende, su una tua passione, un tuo interesse, hai fatto un giro all’Ikea per arredare una nuova stanza della tua mente - anzi, dato il budget è più probabile si trattasse di Flos.
A fine febbraio è iniziato il corso. Ogni giovedì una lezione intorno ai cento minuti appariva su una piattaforma molto simile al forum su cui pubblicavo fanfiction di Twilight quando avevo 14 anni, un breve commento nella sezione principale per avvertire che era online e poi eccolo là, il video che ci aspettava nella sezione “Lezioni”. Ho seguito le prime quattro con costanza, il sabato pomeriggio dopo pranzo, facendo i compiti la domenica pomeriggio, sempre dopo pranzo. Computer acceso, quarantasette schede aperte, articoli, libri, citazioni, personaggi, fatti accaduti, e poi la pagina di Dropbox Paper dove prendevo appunti in contemporanea - perché se uno è metodico lo è fino alla fine, anche se le sottolineature colorate e i pesi dei caratteri diventano quasi più una questione estetica, a un certo punto -, mi imbevevo di tutti gli spunti possibili che venivano menzionati.
A un certo punto, accanto alla irreprensibile soddisfazione che provavo portando avanti qualcosa per me, che era costruttivo e stimolante per le mie capacità intellettuali, si è fatto strada uno strano senso di giustezza nel modo in cui stavo utilizzando quel mio tempo libero - non guardando serie tv, non leggendo un libro, non facendo semplicemente nulla di ricreativo. Toglievo ore alla leggerezza votandole a un motivo più alto e nobile, che a perseguirlo a lungo andare mi restituiva però qualcosa di più simile alla pressione tipica di una giornata di lavoro, in cui il tempo deve servire a qualcosa, bisogna usarlo tutto, non sprecarne nemmeno una goccia, non importa la stanchezza, non c’è tempo per rallentare.
Nelle settimane successive ho iniziato ad ascoltare le lezioni in 2x, cercando di consegnare il compito che ci veniva richiesto nella stessa giornata, per risparmiare tempo. Circoscrivendo il corso al weekend potevo sfruttare il paio d’ore dopo lavoro per fare sport, e le sere della settimana che veniva per scrivere la puntata seguente di Càpita, e farlo in meno giorni possibili così che potessi rileggerla, o farla osservare per tempo a occhi più chiari ma meno impastati di sonno dei miei prima di pubblicarla. Dopo aver mandato la newsletter il weekend restava libero per la successiva lezione della Holden, per guardare un paio di puntate di una delle ultime serie tv uscite - sia mai che mi perdessi i dibattiti, per cos’altro si guardano le serie tv? -, e per leggere il libro che avevo per le mani in quel momento, sul quale volevo - dovevo - concentrarmi, per riuscire a segnare un altro titolo sulla mia nota del telefono, “Libri che ho letto”.
Capitalizzare il proprio tempo, tutto il tempo, da quello lavorativo a quello personale, è un’abitudine tipica di noi Millennial, ma pure della società votata alla performance - positiva, esemplare, fuori dall’ordinario - nella quale viviamo. Il primo lockdown ne è stato un esempio: quando vita lavorativa e vita personale hanno iniziato a confondersi perché non c’era più un luogo fisico che definisse l’una o l’altra, ma solo casa nostra e tutto quello che ci facevamo dentro, il tempo è diventato un Google Calendar da riempire con piccoli slot serrati di attività produttive, costruttive, il pane, il workout, il journaling, i libri, il knitting, la meditazione.
L’iper-produttività è la conseguenza di quella allucinazione collettiva che è la società della performance, in cui chiunque è vincente, bellissimo, magrissimo, intelligentissimo, ha i lavori migliori, conosce le persone migliori, va alle feste migliori, e non considera il filtro attraverso il quale lo guardiamo, i social media, una lente falsata, parziale, che ci restituisce solo uno spaccato bidimensionale della vita di chi ci fa sentire inadeguati e spingere l'acceleratore per rispettare degli standard che non abbiamo manco deciso noi consciamente.
Quando mi dimentico queste cose, mi piacerebbe che bastasse prendere il mio cervello per mano e riportarlo al museo dove sono esposti i miei bisogni primari, per mostrarglieli di nuovo, e spiegarglieli ancora, come fosse la prima volta. Voglio essere libera di saltare una, due, tre lezioni della Holden se non ho voglia di farlo, voglio passare un pomeriggio a prendere il sole senza pensare che sarebbe una giornata perfetta per andare a camminare, perché camminare fa bene eh, voglio andare a fare una passeggiata dopo lavoro anziché fare workout se non ho voglia di farlo, no, manco mezz’ora, manco quello di Kayla Itsines che dura 28 minuti e poi ho finito. Voglio poter essere mediocre, voglio non essere brillante, voglio essere comune, e magari alle volte anche fare schifo, se la versione migliore di me significa smettere di rincorrere un’idea irreale di stare bene ed essere felice che non ho scelto io e che non mi va bene in quel momento.
A gennaio di quest’anno, per la prima volta, non mi sono data alcun buon proposito, non ne ho scritto manco uno sulla mia Moleskine con la copertina rossa di stoffa. “Go with the flow”, mi sono detta, “Usa meno i social, fatti il vaccino, leggi di più, ma vedi come va, fai cosa ti senti, quando te lo senti.” I had one job, e visto com’è andato il corso della Holden sono riuscita a mancare l’unico obiettivo che mi ero data per quest’anno, nonostante fossi partita con le migliori intenzioni. Non so se si tratti di dissonanza cognitiva ma in fondo si sa, i buoni propositi non li rispetta mai nessuno. Anche se non so bene come funzioni per me questa cosa, dato che sono un Capricorno.
Cose che mi sono capitate tra le mani
Italian Vice, un profilo sull’estetica d’oro degli anni ‘80 e ‘90 in Italia, tipo Paolo Maldini livin’ the internet dream:
Gone di Jorja Smith, incisa col piccone nel mio cervello da qualche giorno - consiglio il suo ultimo disco, mica male;
un riassunto di come ho vissuto l’ultima settimana;
Cotoletta, ospite di un allevamento di alpaca in Basilicata, che ieri ha compiuto gli anni. Allego diapositiva:
i corpi come li fotografa Elena Mudd;
We’re Not Really Strangers che lascia piccole perle su Twitter;
gli interni sul profilo di Francisco Nogueira, i mean:
Se anche tu stai ancora pensando al compleanno di Cotoletta - e fidati, hai la mia assoluta comprensione -, condividi Càpita con qualcuno che apprezzi gli alpaca. Che comunque se non apprezzerà lo farò io.
Ci vediamo tra due settimane!
Baci stellari,
Laura
Bellissimo Laura, mi ci sono ritrovata molto e ho riso troppo.